- 03 ottobre agosto 2022

Paura di non essere mai abbastanza
Anni di studi, specializzazioni, perfezionamenti e approfondimenti per fare il proprio lavoro e tuttavia alla proposta di un lavoro importante, di una promozione o anche di un solo riconoscimento ci si sente in dovere di sminuirsi e squalificarsi.
Perché succede?
Persone attraenti e di spessore che non sentono di poter accettare un complimento e mascherano dietro una battuta la fatica di accettare ciò che gli altri pensano di loro.
Cosa significa non sentirsi mai abbastanza e non sentirsi mai all’altezza?
Perché c’è chi si sente sempre non abbastanza preparata/o, non abbastanza versatile e soprattutto non sufficientemente meritevole di avere successo?
A voi capita mai è mai di vivere queste situazioni, o altre analoghe, e di sentire come un senso di vergogna o di colpa e di non meritare il successo che state vivendo, sentendo inoltre il timore di poter essere smascherati subito dopo?
Se queste tipologie di pensieri si affacciano alle vostre menti fate parte probabilmente di quella categoria di persone che attribuisce a sé i fallimenti del proprio lavoro, della vita personale, e agli eventi esterni, le coincidenze o fortuna, le cose positive che gli capitano.
In psicologia quando si parla di locus of control si intende la tendenza ad attribuire a cause interne o viceversa esterne agli eventi di vita che ci accadono, negli esempi sopracitati quindi è come se voi attribuiste interamente a voi stessi le cause dei vostri fallimenti “Non sono capace, sono un disastro, un fallimento totale!” e attribuiste a cause esterne le cose che funzionano “Mi è andata bene, sono stata fortunata/o”.
Giorgio Nardone, psicologo e psicoterapeuta fondatore insieme a Paul Watzlavick del Centro di di Terapia strategica di Arezzo, dice ad esempio, che per le persone che non si stimano il successo vale zero, l’insuccesso vale doppio.
Si parla anche di sindrome dell’impostore: secondo la ricercatrice Pauline Clanche si tratterebbe di individui che lavorano sodo e ottengono anche buoni risultati, ma raramente se ne attribuiscono i meriti e tendono ad auto sabotarsi con pensieri e convinzioni squalificanti su di sé.
Secondo una visione costruzionista la realtà in cui viviamo viene co-costruita col linguaggio nelle interazioni che abbiamo con gli altri esseri umani.
Questo modo di osservare e di conseguenza costruire la realtà con le parole, tutto basato sul vedersi e definirsi in negativo, finisce per diventare pervasivo e non permette che la persona costruisca un’immagine di sé reale e positiva.
Una mia paziente mi ha lasciato una volta questa bellissima immagine: “è come se le cose buone che faccio fossero sassolini troppo piccoli per rimanere nel mio retino dell’esperienza e ogni ondata d’acqua se li trascinasse via”.
Complice di questa modalità di pensiero, spesso più femminile, anche la cultura dominante, nel loro libro Michela Murgia e Chiara Tagliaferri parlano di “sindrome di Ginger Rogers” e implica che, in quanto donna, per stare accanto a “un Fred Astaire” tu faccia le stesse cose ma all’indietro e sui tacchi a spillo.
Nel libro spiegano il concetto di migliorismo femminile, una sottile pratica misogina che non dice più che le donne non possano raggiungere gli stessi traguardi degli uomini, ma che se vogliono raggiungerli devono essere migliori degli uomini.
In maniera sinergica anche il contesto familiare potrebbe avere incoraggiato questa visione di sé.
Potrebbe essere che nella vostra famiglia non venisse apprezzato, più o meno esplicitamente, che foste forti e determinati e che sempre più o meno esplicitamente venisse invece auspicato che mostrarsi fragili è un valore perché non si attira invidia o perché non si è troppo competitivi. Oppure potrebbe essere che prendersi i meriti del proprio successo venisse visto come mancanza di modestia e che chi avesse successo compisse solo il proprio dovere, che essere fieri dei propri risultati fosse visto come autocompiacimento e sfoggio di arroganza. E così via.
Non è sempre semplice capire il perché ci ritroviamo a dovere chiedere scusa dei nostri successi e a volte anche quando comprendiamo il senso di questa paura di avere successo a livello, personale, relazionale e culturale tutto questo non sempre ci fa sentire meglio o implica che riusciamo immediatamente a creare un cambiamento.
Rendersi conto però che questo modo di affrontare le cose ci fa soffrire, ci crea frustrazione o ci blocca nel nostro cammino e nel raggiungimento dei risultati desiderati è il primo passo per mettere in moto un percorso!
Ripartire da sé dai propri desideri cercando di guardarci dentro e affrontandoli anche con la paura, perché avere paura e agire è un valore aggiunto, è la chiave per la soddisfazione e la realizzazione personale. Non fermarsi e accettare profondamente che il cambiamento sia parte essenziale della nostra esistenza diviene una forza motrice incredibile.
Come diceva Grace Jones “Ci si mette tutta la vita a diventare se stesse e il mutamento è l’unica identità a cui vale la pena di restare fedeli”.
Per approfondire
Clance, P. R., & Imes, S. A (1978). The imposter phenomenon in high achieving women: Dynamics and therapeutic intervention. Psychotherapy: Theory, Research & Practice, 15(3),241-247.
Murgia e Tagliaferri, Morgana. Mondadori.
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